- valga questa citazione ad assolvere i ripesi tutti del peccato
d'ingratitudine.
X X X X X
Tutti i giorni era un andare e tornare dal paese al Lazzaretto, dal
Lazzaretto al camposanto.
A forza di andare e venire anche i cavalli
diventarono ronzini ischeletriti.
Spesso capitava che i due cortei - quello
dei malati e quello dei morti - si incontrassero, dando luogo a scene di
cordoglio.
Quando fra i morti accatastati sui carri c'erano dei parenti o
degli amici, i malati, come estremo saluto:
"R'punn'm' u posht' (Riponimi - mettimi da parte - il posto).
Tra kakk' hiuorn', t' vièng' a tr'và. P' r'mèné sèmp' èu(e)nit'" (Tra qualche giorno, ti vengo a trovare. Per rimanere sempre uniti).
Tra questo "Tich'_è_tacch'" tra la vita e la morte passarono giorni e
giorni.
X X X X X
A questo punto la storia si fa suggestiva: avvince e affascina con il suo
alone di ieratica leggenda.
Avvenne che un pomeriggio di mezza estate
l'Angelo della Morte imperterrito si accampò lungo tutta la Montagna con fare
minaccioso nei confronti del Lazzaretto.
I degenti rimasero in ascolto di
quella notte percorsa da mormorii, quasi grilli di un campo sconosciuto.
Si
assopirono.
Si svegliarono.
I pagliericci tremavano. Non le capanne.
Neanche il terreno.
Solo i pagliericci, stesi sulla terra.
Si sentivano
ardere.
La capanne si riempirono di fumo assieme ad uno strano profumo di
lillà.
E che cos'erano quelle masse nere, che parevano animali
coricati?
Nei viali tra le capanne cominciò l'andirivieni degli inservienti
con le lanterne …
Nessuno riusciva a liberarsi dal pensiero della
morte.
Fissavano il vuoto con gli occhi sporgenti come a cercarvi i fantasmi
di chi li aveva preceduti; fragili spauracchi evocati dalla fantasia.
La
mattina, mentre ci si aspettava che la luna facesse strada al sole, l'Angelo
della morte oscurò il cielo.
E nel buio una miriade di occhi rossi fiammanti
di astio per Dio e per gli uomini, scendevano verso il Lazzaretto,
minacciosi.
Dalle capanne si levò l'urlo della disperazione.
Però pure
l'umile preghiera di una devoto di S. Michele.
- Angelo Santo!
O nostro gran protettore!
Gran capitano delle armate celesti
Io a te ti voglio accanto
In quest'ora terribile.
Lucifero non deve vincere. -
Disse quasi rantolando. Ma la sua voce la
sentirono anche nelle case del paese, dove per altri malati si pregava.
Ed
allora dalla chiesetta del romitorio si levò un nichelino luminoso, un diamante
immerso nel sole.
E a mano a mano che saliva in cielo diventava sempre più
grande fino a diventare un altro sole.
E mentre ascendeva, trafiggeva la
"notte del maligno" con dardi luminosi.
Nel silenzio risuonò una tromba,
producendo un "pauroso alto clamore" .
E la montagna fu avvolta da un gran
fumo.
E nel fumo guizzavano "riluttanti fiamme" .
Segno, questo, che
Lucifero con i suoi si apprestavano allo scontro con S. Michele e la milizia
celeste, di cui egli era "gran capitano".
Lì a poco apparivano due legioni
infuocate, disposte l'una di rimpetto all'altra.
Si intravedevano rigide
aste, spade scintillanti, cimieri rilucenti, corazze e scudi decorati.
Ancora
un suono di tromba. Questo più lungo.
E si alzò il grido della battaglia,
seguito dal violento frastuono dell'attacco.
In prima linea Lucifero, seduto
su un cocchio, avanzava chiuso in armatura d'oro e diamante.
La massa dei
malati e degli inservienti, vedendolo:
- Gesù, com'è possibile che il Principe delle tenebre possa gareggiare con
te in bellezza? - Atterriti dalla sua potenza chiusero gli occhi e si
prepararono al peggio.
Udirono Lucifero urlare a S. Michele:
- Mal per te. Questa è l'ora attesa per la mia vendetta.
Fatti avanti.
Strappa dal mio cimiero qualche piuma e segnerai, così, l'inizio della tua
vittoria.
Dimenticavo che sei addestrato ad essere cane per subire, non padrone per
comandare. -
E S. Michele rispose:
- Ingiustamente deturpi "servire Dio" con "schiavitù".
Servir gli stolti questa è schiavitù, com'ora i tuoi seguaci servono te.
Tu non sei libero ma schiavo di te stesso.
Cane legato con catene, nell'Inferno.
E da me, così come hai detto, prenditi sul cimiero questo saluto. -
Così
parlando levò in alto la spada e, rapido colpì il cimiero di Satana, che
indietreggiò e stordito, cadde sull'elsa della spada.
Stupore e smarrimento
prese i suoi seguaci.
Le schiere di S. Michele, gioiose, riempirono la
vallata di alte grida.
Si gettarono nella mischia, decisi a farla finita al
più presto; spronati dalla "tromba degli arcangeli" che risuonava "negli ampi
cieli".
Ed ebbe inizio l'urto orrendo.
Le armi cozzano contro armature, le
ruote infuocate dei carri impazziscono, i fulmini micidiali producono frastuoni
paurosi mentre i dardi tingono di fuoco il cielo.
Quanto durò lo
scontro?
Nessuno potrà dirlo. Un attimo. Un'eternità.
Fatto si è che, più
forte dei tuoni e delle urla dei contendenti si alzò la voce di S. Michele:
- Quis ut Deus? - "l'enorme spada alto roteando l'orrido taglio suo calava a
compiere intorno vasta strage" .
Satana con i suoi si mise in fuga.
E
ancora S. Michele a gridargli dietro:
- Non credere che ti è permesso turbare qui la santa quiete .
Via di qui. E portati con te i tuoi seguaci, nell'inferno -
Tornò il
sereno. Il sole splendeva sul Lazzaretto in ordine.
Accanto al letto
dell'ammalato della prima capanna, appariva il "Pellegrino con il Cappellaccio e
la vozza di acqua appesa al bastone"
- E tu che fai qui? - Gli chiese il Pellegrino all'ammalato, che aveva visto
sotterrare tutti i suoi.
- Non vedi? Mi preparo a morire.
Il Pellegrino sorrise. Poi gli passò la
mano sulla fronte.
- Morirai quando sarà l'ora.
- Ma…
- Ne zapperai di terra e ne berrai di vino prima di morire.
Nell'anima
dei degenti entrò pace e serenità.
Uno degli inservienti - anche di questi il
nome è stato dimenticato - vide seduto accanto al malato della prima capanna, al
lato nord del Lazzaretto, un Pellegrino. Il grosso cappello in testa, il bastone
alto e ritorto all'estremità, " a vozz'" legata al bastone e una grossa croce
rossa, in campo bianco, segnata sulla spalla.
Si avvicinò e, rimanendo in
disparte, tese l'orecchio:
- Cosa fai? - sente che chiede all'ammalato. L'ammalato:
- Non vedi? Aspetto la morte.
Il Pellegrino sorrise. Poi, profetico:
- Ne zapperai di terra ancora e ne berrai di vino dei Vastini. Non è
arrivato ancora il tempo per te.
- Ti va di scherzare. La morte la sento dentro. Mi aggredisce da per tutto
-
E il Pellegrino:
- Gesù ti ama. Gesù è la vita - breve pausa. Poi:
- Alzati. Non sei più malato. Rincasa. La famiglia ha bisogno di
te.
L'inserviente e gli altri degenti, quasi invidiosi:
- E noi? E noi?… Anche noi abbiamo le famiglie. Non lasciarci morire. Non
andartene.
Aiutaci a vivere.
Come d'incanto il Pellegrino si trasformò in
un esercito di pellegrini clonati.
Uno per ogni lettuccio; uno accanto ad
ogni ammalato. Dissero ad una voce:
- Alzatevi, prendete le vostre cose e tornate a casa. Siete guariti!… E non
peccate più. -
E sparve nella luce, della campagna.
Di lì a poco, qualcuno
mise i piedi a terra. Si alzò. Si guardò sotto le ascelle… i bubboni erano
spariti.
- Miracolo! - Urlò.
Pure gli altri si levarono in piedi. Si guardarono
sotto le ascelle…
- Miracolo! - gridarono ad una voce.
Il sacerdote, commosso quanto
loro:
- Chi aspettate a prendere le vostre cosucce e rientrare in paese?
S. Rocco ci aspetta in chiesa.
I degenti aiutati dai parenti e dagli
inservienti obbedirono. Poi, insieme, con il prete che portava la croce a stilo
presero la scorciatoia per il paese.
A mezzo percorso, cominciò come a
grandinare goccioloni "radi e impetuosi", che battendo sulla strada arida e
polverosa, sollevavano un minuto polverio, gradito all'olfatto.
Dopo alcuni
minuti diventarono fitti.
Prima che arrivassero all'entrata del paese pioveva
a dirotto.
Ma tutti, invece di prendersela a male, ci guazzavano dentro,
felici.
Se la godevano quella rinfrescata.
E la campagna metteva certi
respironi "larghi e pieni", che facevan ben sperare.
E in questa esplosione
della natura gli uomini sentivano più vivamente come s'era svolto in meglio il
destino di ciascuno.
Forse non tutti indovinavano che quell'acqua si portasse
via il contagio e avrebbe restituito alla campagna il verde e all'ambiente la
frescura di sempre.
Nessuno si pose il problema di come ripararsi dalla
pioggia.
Premurosi com'erano di raggiungere la Chiesa e raccontare ai santi
protettori la propria esperienza.
Soprattutto di poter presto riprendere la
vita interrotta dalla peste.
Dopo alcuni giorni, constatato che la moria era
cessata e che la vita riprendeva lentamente secondo ritmi conosciuti, le
autorità civili e sanitarie permisero che si riaprissero le porte ai
forestieri.
Nelle case dei morti furono inchiodati gli usci.
In attesa che
si facessero avanti i parenti, per rivendicarne i diritti di proprietà.
Fu
messo su un comitato di cittadini capaci e volenterosi per coinvolgere gli altri
nei preparativi dei festeggiamenti della guarigione ottenuta.
Il 15 di agosto
verso il tramonto uscì la processione dalla chiesa parrocchiale.
Tutti
portavano in mano una torcia al vento accesa. Andava innanzi il crocifero. Dopo
di lui il popolo tutto. Avevano il volto coperto con un telo, nel quale avevano
praticato due fori, in direzione degli occhi. Vestivano o di sacco o di abiti
dimessi, perché logorati e in disuso.
Venivano poi le congrue, tutte. Varie
per colori e per abbigliamento e per insegne.
Per ultimo il clero, la piccola
frangia rimasta nascosta sotto due baldacchini floreali: la statua di S. Rocco e
di S. Michele, i veri trionfatori. Subito dopo le due statue la "Compagnia di S.
Michele Arcangelo".
Molti dei malati, strappati alla morte, dall'orlo della
fossa - come dimostrazione della propria gratitudine e in segno di penitenza:
scalzi e i capelli bianchi di cenere - raggiunsero la chiesina di S. Michele,
ripulita dalle brutture.
La notte la passarono in preghiera sulla piana della
Cappella di S. Michele.
L'indomani riportarono in processione le statue nella
chiesa, dopo aver attraversato per lungo e per traverso il paese con inni e
canti religiosi.
Le strade erano parate a festa: i ricchi e i poveri avevano
tirato dalle casse e dagli armadi coperte impreziosite di colori e ricami. Le
case dei poveri erano state avvivate con rami e drappi dai vicini benestanti.
Da
molte finestre piovevano petali di fiori sulle statue.
Il paese tutto, muto e
deserto, tendeva l'orecchio.
Alcuni, per vedere meglio il corteo, salivano
sui tetti.
Dalla quella volta tutte le famiglie presero ad appendere a capo al
letto l'immagine di S. Michele che rinfodera la spada e quella di S. Rocco che
mostra la fistola sanguinante nella gamba.
Non per abitudine.
Per
fede.
Così come mi è stato raccontato da Z' Kol' F'lipp', Z' M'kèlangh'l' M'rièll'
e da Z' Mink' Vèrèfridd'.
Testo: Giuseppantonio Cristofaro
Digitazione dati: MariaLucia Carlone
Programmazione HTML: Vittorio Sauro & Walter La Marca
Fotografie: Walter La Marca
| H O M E |